Intervista a Daniele Ciprì: l’esigenza di raccontare

Intervista a Daniele Ciprì: l’esigenza di raccontare

luglio 27, 2019 0 Di Bianca Ferrari

“Quando lavoro mi metto al servizio dell’immaginario altrui: della storia, dell’idea che c’è della narrazione”. Questa è la filosofia di Daniele Ciprì. Direttore della fotografia, regista, autore: attraverso le sue storie e il suo sguardo Ciprì ha raccontato la realtà nella sua complessità, attraverso storie che giocano col grottesco, la comicità e la tragedia. Dalla stretta collaborazione con Franco Maresco, Ciprì ha poi lavorato come DOP per diversi registi e autori, scommettendo spesso sui giovani e sul formato del “cinema breve” – il cortometraggio.

Essere al servizio della storia è fondamentale, e questo lo ribadisce sempre: “Nessuno dovrebbe avere uno stile preciso, quindi non mi pongo con un aspetto del mio stile, mi pongo con l’aspetto dello stile di quel film. Mi rendo utile per un immaginario che fa parte della storia che si sta raccontando, ma sempre mantenendo un gusto. È un lavoro che faccio da sempre e che continuerò a fare così. Per me il direttore della fotografia deve scrivere per immagini, filmare l’immaginario del regista. Qualsiasi film faccio, cambio: cambio aspetto, cambio modo di guardare, cambio tutto – lenti e quant’altro.”

 

Del concetto di immaginario nel cinema Ciprì ne parla sempre, descrivendolo come fondamentale se si vuole creare qualcosa che abbia significato. Costruire un immaginario non è però semplice, e molto del cinema italiano sembra non volerci neanche provare. Un problema produttivo e di “possibilità” per i nuovi autori o proprio una “mancanza generazionale” di diseducazione all’immagine?

“Io non so cosa succede o che cosa succederà, però sicuramente in gran parte dei lavori nostrani sento tecnicismo, sento molto calcolo e questo non so da cosa possa dipendere. Lo noto anche con l’internazionale, non solo con gli italiani: per esempio le serie si stanno un po’ appiattendo, sono tutte uguali, sono tutte “fatte bene”. La tecnologia permette di avere delle conformazioni fotografiche che ormai abbiamo anche nel telefonino, si basano soltanto su quel principio. Da questo punto di vista faccio molti incontri con i giovani, anche nelle scuole, cerco di incontrare il più possibile giovani autori o giovani promessi autori, e quando vado a fare gli incontri con i ragazzi parlo sempre di immaginario.”

E’ dalla scuola dei Pupi siciliani, da dove proviene, che ha imparato a immaginare, ascoltando un cuntista che raccontava storie di battaglie: “Il cinema è fatto proprio di questo – il cinema tu lo immagini. Io cerco di raccontare il più possibile l’attuale, il vero, ma sempre attraverso un mio immaginario. Consiglio sempre a tutti di fare una esercitazione mentale, anche perché da lì nasce tutto: nascono le inquadrature, la luce, la composizione degli oggetti. Basti pensare a una gran parte del cinema che ha fatto parte della nostra infanzia, da Tim Burton ai Coen a Martin Scorsese, e a tutta una serie di registi che hanno raccontato la propria realtà ma sempre con un immaginario diverso, aumentando o diminuendo quel grottesco visivo che comunque ti fa fare il cinema. Basti pensare al Padrino, una grande composizione del reale – nel raccontare la mafia – ma attraverso dei principi che sono propri del cinema.”

 

A proposito di giovani autori, ha da poco lavorato come direttore della fotografia sia a Il primo re di Matteo Rovere che a La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi. Com’è stato lavorare su questi set? C’è stato qualcosa che li ha accomunati?

“Il coraggio. Il coraggio perché quando parliamo de Il primo re (con cui Matteo Rovere mi ha fatto un grande regalo) abbiamo dovuto raccontare di due personaggi che comunque non conosciamo, e abbiamo dovuto immaginarli in dei luoghi – boschi o altro – cercando di capire il più possibile come rappresentare quell’immaginario. Lì è stata una esercitazione di quello che dicevamo poco fa: disegnare il più possibile attraverso delle immagini fatte di cose che  non hai vissuto, non hai visto. In questo senso mi ha dato la possibilità di esercitarmi ancora di più.

Per quanto riguarda invece La paranza dei bambini, che è una storia vera, fra l’altro un libro di Saviano, ci siamo andati a confrontare con una realtà e con un realismo visivo, quello di Napoli, cercando di allontanarci però il più possibile dai clichè delle serie che comunque non ci appartengono. Abbiamo cercato di portare il film un po’ tra il realismo e la fiaba, ma non con i cliché che appartengono alla denuncia. Che poi di fatto lo stai già facendo, perché stai raccontando di giovani che hanno avuto a che fare con la malavita, però lo racconti con una forma diversa, che è quella del cinema. Giovannesi ama tanto non staccare nel montaggio, ama il piano sequenza, ma questo deve avere una logica, non deve essere una macchina che arriva e non racconta (e molto cinema è fatto di questo, arriva un dolly e non racconta nulla). Da quel punto di vista La paranza è un film diverso, racconta una umanità, quindi devi basarti sulla forza della storia, devi stare sugli attori – attori tra l’altro non professionisti, ma che comunque hanno dimostrato di sapere recitare e di rileggere una realtà che fra l’altro conoscono benissimo. Quindi ecco che i due film, anche se completamente diversi, si uniscono per questo loro modo di rappresentare: perchè non basta prendere una macchina da presa e filmare quello che succede, ma devi rappresentarlo il più possibile con gli occhi come li chiamo io “inginocchiati”.”

 

 

Quindi rimaniamo sul discorso della centralità della narrazione, dell’adattarsi alla storia…

“Sì, poi viene la luce, viene tutto il tema della gradevolezza delle immagini, ma quello è un discorso che comunque io valuto poco, nel senso che cerco ovviamente di farlo il meglio possibile, ma ci sono tanti colleghi che lo fanno altrettanto bene. Non c’è una differenza, ormai c’è una grande conoscenza da un punto di vista tecnico: io sicuramente cerco di portare sì una caratteristica estetica, ma attraverso una logica. Ho iniziato a lavorare molto giovane, mio padre era una artigiano che lavorava con le macchine fotografiche e mi sono ritrovato in un mondo tecnico, e una cosa che dicevo sin da piccolo era “e adesso che me ne faccio della tecnica?”. La tecnica deve essere al servizio di altro, lo diceva anche un grande maestro del cinema come Orson Welles e lo diceva a Gregg Toland: “la tecnica si impara in tre giorni. Tu devi raccontare le storie.”

Non a caso il suo film di riferimento è La finestra sul cortile di Hitchcock, in cui James Stewart rilegge la realtà attraverso una macchina fotografica – una metafora perfetta del suo modo di rileggere la realtà, di pensare in modo cinematografico. “Tutti vanno avanti e io cerco di ritornare indietro, sono sempre più convinto che le cose vecchie rimangano sempre e che le cose nuove si brucino dopo una settimana. È un mio modo di pormi questo lavoro, se no non lo farei: mi affascina il fatto di potere ricostruire un luogo, uno spazio, dove devo raccontare una storia, un dialogo, portandolo all’estremo ma mantenendo comunque una logica”. Guardare con gli occhi del cinema: questo è il suo modo di lavorare, e in questo senso avverte una preoccupante mancanza: “Io sento sempre tecnicismo, sento muovere queste macchine ma non sento l’anima dei personaggi. Diamo sempre la colpa agli sceneggiatori, ma secondo me la colpa è anche di chi descrive quello che scrivono gli sceneggiatori: devi avere un altro immaginario ancora.”

Nella sua lunga carriera, Daniele Ciprì ha lavorato con diverse personalità del mondo del cinema, in ruoli diversi: dalla stretta collaborazione con Franco Maresco, il lavoro come DOP per Marco Bellocchio, Roberta Torre, quello con Toni Servillo, le interviste a Mario Monicelli, Giuseppe De Santis, solo per citarne alcuni. C’è stata secondo lei una esperienza lavorativa, di collaborazione, più formativa delle altre?

“Assolutamente si. Io ho avuto l’onore di lavorare con un maestro come Marco Bellocchio. Quando mi ha chiamato per il mio primo film con lui che era Vincere ero terrorizzato di lavorare con una persona di quel calibro. Era però anche lui stesso, che conoscendo la mia storia, che mi chiamava maestro, quindi il rapporto era di colleghi. Da un punto di vista registico io ho imparato tantissimo da lui:  ha un modo di dirigere gli attori che io non avevo, io lavoravo con attori non professionisti e mi basavo sulle “note” che mi davano, mi mettevo lì con Franco Maresco e davamo forma a un aspetto di quello che volevo raccontare, ma sempre con un imput da loro. Nel caso di Marco, che è il cinema proprio, ho visto come comportarsi con un attore professionista, come dialogarci, come metterlo in forma: un lavoro psicanalitico più che registico. Da lui ho osservato molto e imparato tanto.”

 

Il  cinema tuttavia non è stata una scelta, ma qualcosa che gli è capitato quando era giovanissimo, e dal quale non è più uscito. Io lo dico sempre, fa ridere sta cosa. Facevo l’artigiano: prendevo i rullini, li sviluppavo, facevo i matrimoni (e ho rovinato tanta gente) e accanto al mio negozio c’era un biliardo. Ti sembrerà strano, ma io giocavo a carambola e ne ero un grande appassionato, allora mi sono detto: o faccio questo o faccio quello – dovevo scegliere il mio hobby. Avevo 14 anni, pensa un po’ uno di 14 anni che deve scegliere un hobby. Ho tentato il modellismo, ma ci volevano un sacco di soldi. Mi sarebbe piaciuto studiare la musica e non l’ho fatto. Per tutti i registi che dicono “io sono un direttore d’orchestra”: io volevo fare il direttore d’orchestra, cioè al contrario, e già da piccolo giocavo con il cucchiaio a fingendo di esserlo. Il discorso sullo scegliere non c’è mai stato, perché mi è capitato, mi è capitato con gli incontri che ho fatto nella vita. Andavo nei cineclub, incontravo persone, mi confrontavo con loro. Da piccolo andavo con mio papà a vedere di tutto, film belli ma anche film brutti. Poi ho incontrato Franco Maresco nel 1990, con cui ho avuto una amicizia intellettuale: ci siamo confrontati sul cinema, abbiamo fatto dei montaggi, facevamo un “Fuori Orario” a Palermo. Da lì poi è scaturito tutto il resto, ma noi già facevamo il nostro film che era Cinico TV. Dopo è arrivata la proposta di un lungometraggio e da lì è partito tutto. La mia scelta non è stata un modo di dire “faccio il regista”. Anzi, quando sono andato a fare il documento di identità e mi hanno chiesto la mia attività mi sono vergognato a dire che facevo il regista, perché non è una attività!”

“Quando vado nelle scuole di cinema chiedo sempre ai ragazzi: “Perché vuoi fare il regista? Perché mi dici di volerlo fare? Te lo imponi o hai una esigenza vera?”. Ci sono quelli che ce l’hanno, ma ci sono invece tanti altri che lo vogliono fare perché vogliono dimostrare di sapere fare immagine: quello non basta. Se tu devi raccontare la storia di un uomo, allora devi averne proprio l’esigenza, devi esorcizzare qualcosa. È come scrivere una musica, o una poesia. Il regista invece ormai è l’apparire, ed è una cosa bruttissima.”

 

In un mondo pieno di prodotti mediali e di possibilità, grazie alla tecnologia e alla disponibilità dei mezzi, emergere può essere veramente difficile. “Io dico sempre di fare: fare, fare, sbagliare, e rifare, senza però correre. Non bisogna correre, bisogna sperimentare, sbagliare. Prima di arrivare all’opera prima bisogna sperimentare il più possibile se si vuole essere pronti: fare cortometraggi, documentari, fare il più possibile, senza avere il problema dell’economia. Dicono tutti che non hanno i soldi per farlo: non bisogna mai dire che non si è potuto fare qualcosa perché non si avevano i soldi. Se non lo sai fare non lo fare. Lo devi sapere fare anche con poco, e non è una scusa questa, ma una protezione che non ti aiuta a crescere. Con una piccola macchina fotografica puoi fare un film – un piccolo film, non un film per le sale, distribuito, però sicuramente un film con cui ti puoi confrontare con gli altri. Fai i documentari pure, che sono una cosa che fanno crescere. Documentare la vita altrui è importante: il documentare è di fatto un film, un film fatto con un soggetto reale, con cui si possono fare tantissime cose.

Io ho avuto la fortuna di avere amici critici che mi dicevano se quello che facevo era bello o brutto: ti confrontavi anche con una piccola regione ma il confronto lo avevi, di fatto. È importante è costruirsi un gruppo di persone: perché da solo le cose le puoi pensare, ma mai realizzare. La scuola ti forma, ti fa ripercorrere il passato del cinema, e quello lo puoi e lo devi fare con i docenti, ma lo devi fare anche a casa tua, rivedendo tutto il vecchio cinema. È fondamentale vedere i vecchi maestri: non però dal punto di vista tecnico, ma osservando come si ponevano con la macchina da presa, cosa raccontavano.

Questa cosa del fare ti fa rendere conto che magari molti hanno sbagliato a scegliere. Oggi c’è tanta gente che lo vuole fare, questo è un problema. Sicuramente la tecnologia ne ha dato la possibilità: vedi che sta succedendo nelle serie, tutti fanno le serie. Se fai una panoramica su Netflix vedi sempre le stesse cose, cambiano i temi e basta. Sembrano tutti fatti dalla stessa persona, non c’è differenza.”

 

 

Cortometraggi, o “film brevi” come li chiama lei– ne fa tantissimi, ed è anche direttore artistico di un festival di cortometraggi, “Corto Dorico Film Fest”. Come mai questa necessità? Secondo lei come si può combattere lo scetticismo del grande pubblico verso questo formato?

Lo scetticismo è da imbecilli. Una storia breve la devi sapere fare, e non è facile ma è anzi molto più complicato, perché tu in 15/20 minuti devi raccontare drammaturgicamente una storia. La seconda cosa è che non è vero che non c’è un mercato: il cortometraggio è più internazionale, è sottovalutato in Italia ma adesso si sta riprendendo. Io combatto da anni, per me è il cinema breve è fondamentale per potere selezionarsi e selezionare degli autori che ci sono in tutto il mondo. Per questo scelgo di fare le opere prime, perché vedo un autore che cresce, vedo l’evoluzione di un autore. Pensa, Bellocchio mi ha chiamato adesso per un cortometraggio: anche lui continua a lavorare coi cortometraggi, perché ti danno la possibilità di spaziare liberamente su una storia che vuoi raccontare: prendi appunti e poi lo fai diventare un lungo.

Per quanto riguarda Corto Dorico facciamo una grandissima selezione di corti, ne prendiamo 8 su 2000 che arrivano e ho visto una grandissima qualità che viene da tutto il mondo. Io farei dei cinema che proiettano cortometraggi, per esempio in un multisala adibirei una saletta dove proiettare quattro cortometraggi al giorno: secondo me sarebbe una cosa scatenante – paghi un biglietto e vedi quattro storie. Il cortometraggio io lo trovo un trampolino per potere lanciare una economia in Italia: la sala sta morendo, bisogna creare la curiosità e sono convinto che se non lo facciamo i cinema chiudono, diventano solo multisalsa con i popcorn e i telefonini – ed è la fine del cinema. Non c’è più l’attenzione, non c’è più quella curiosità di vedere il film non solo con lo schermo grande ma con la gente in sala. Per questo parto proprio dal principio del cinema breve, che non chiamo cortometraggio, ma che definisce meglio che si tratta di un film piccolo.

Riferendosi infine ai suoi prossimi progetti, Ciprì ci tiene a ribadire che non è uno di quei registi che fanno un film all’anno – se gli è successo in passato è perchè ne aveva davvero l’esigenza. Al momento sta lavorando a due progetti personali: Uno, che ho già preparato da anni ma che ho messo in cantiere perchè costa troppo, parla di due adolescenti che viaggiano: è da tempo che voglio raccontare l’atto dell’immaginare, e con questo ho cercato di portare avanti una storia che potesse fare riflettere su questo tema. L’altro invece lo sto scrivendo ed è un film molto più asciutto, più economico dal punto di vista della forma, che però mi interessa fare perché lo penso da tanti anni. Parla di una relazione padre-figlio e si basa anche sul grottesco, sul modo di comportarsi di un padre, e spero di portarlo avanti per l’anno prossimo. Per l’anno prossimo mi sono concesso di staccare con tutti, se ci riuscirò, e di cominciare con questo. Adesso sento il bisogno di raccontare questa storia, sento il bisogno di parlare con la nuova generazione, proprio perché le frequento le scuole e ai ragazzi mi ci pongo come padre: questi film sono proprio per loro. Non voglio mandare messaggi, ma riflettere su uno stato umano che abbiamo in questo momento che è disastroso. Tutto è omologato: mi sembra di stare in un film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi, in un mondo piatto. Siamo tutti uguali, a partire dal mezzo che ci sta facendo comunicare. Abbiamo internet, uno smartphone… tu hai sicuramente tutto quello che ho io. Poveri o ricchi siamo tutti uguali – questa disperazione dei giovani che vogliono apparire viene da questo. Tra l’altro il film che farò a settembre come direttore della fotografia parla proprio di questo: un giovane regista sta facendo un lavoro su questo tema e sulla violenza dei giovani. Io l’ho scelto proprio perché sento il bisogno di affrontare questo tema – senza però svanire nel serioso o nell’intellettualismo, ma raccontando di una storia umana. Come ho fatto con È stato il figlio, una storia vera riletta in modo grottesco: quel tipo di cinema a me interessa, il cinema che ti fa riflettere facendoti ridere, piangere, sbalordire. Non puoi non riflettere su quello che sta succedendo: in fondo sono il nostro pubblico, non ce lo scordiamo.”

 

Bianca Ferrari