La professionalità trasversale di Luca Lucini

La professionalità trasversale di Luca Lucini

agosto 10, 2019 0 Di Andrea Pedrazzi

 

Luca Lucini è un regista che ha saputo ritagliarsi una posizione importante all’interno del panorama cinematografico italiano degli ultimi due decenni. Dal suo esordio alla regia di un lungometraggio con il grande successo Tre metri sopra il cielo (2004), sino al più recente Come diventare grandi nonostante i genitori (2016), passando i buoni riscontri ottenuti da opere come Amore, bugie & calcetto (2008) Nemiche per la pelle (2016), Lucini ha saputo sfruttare le esperienze maturate lavorando nei diversi ambiti dell’audiovisivo, facendole confluire in una professionalità organica e trasversale. Di questo e del suo prossimo ed imminente progetto ha parlato in questa intervista rilasciata a Cinema in viaggio.

 

Lei esordisce come regista di videoclip e spot pubblicitari per poi approdare al grande schermo, ci può raccontare le fasi principali di questo suo percorso?

È stato un percorso abbastanza particolare. Io non ho frequentato nessuna scuola, ma ho esordito nel periodo in cui nascevano le televisioni musicali in Italia e c’era molta richiesta da parte loro. Io ho iniziato quasi per gioco, girando il videoclip di un amico musicista che aveva un gruppo. Insieme collaboravamo anche alle trasmissioni della RAI facendo le comparse per guadagnare due lire nel periodo degli studi e qui ci siamo appassionati a quello che c’era dietro le quinte. A tutto quel mondo frenetico di gente che non sapevamo nemmeno cosa facesse con esattezza: operatori, microfonisti ecc… In seguito alla nascita di questa passione abbiamo deciso di provare a realizzare un videoclip con le nostre forze. Perciò ci siamo messi al lavoro e abbiamo fatto questo video, anche piuttosto brutto, che però è stata una prima esperienza e da lì in poi è stato divertente continuare a confrontarci con questo mestiere. Abbiamo realizzato videoclip per alcuni gruppi Metal, amici di amici che ci chiedevano. Poi dopo qualche tempo sono arrivati i lavori un po’ più seri, siamo approdati su Masterclip e abbiamo ottenuto riscontri positivi, perciò abbiamo iniziato a girare video per cantanti professionisti come Irene Grandi o Vinicio Capossela. Masterclip era la divisione della Filmmaster che si occupava di video musicali, Filmmaster che invece era incentrata principalmente sulle pubblicità, quindi il collegamento è stato facile e abbiamo iniziato a girare i primi spot.
Ho fatto una campagna molto importante per la TIM che venne notata perché aveva un tono quasi cinematografico, i personaggi erano descritti in un certo modo e c’era un’atmosfera che era piaciuta molto. In quel periodo nasceva Cattleya che mi aveva notato e mi contattò per affidarmi la regia di un cortometraggio, il quale faceva parte di un progetto che vedeva il coinvolgimento di Cinecittà. Perciò ho realizzato questo cortometraggio intitolato “Il sorriso di Diana” che era all’interno di un film coprodotto da Cinecittà e dall’istituto Luce. Il cortometraggio è andato benissimo, è stato premiato in diversi festival, da Montreal a Berlino. Da lì in poi mi hanno proposto dei film e da lì è iniziata la carriera cinematografica.

In che modo le sue esperienze iniziali hanno poi influenzato il suo operato come regista di lungometraggi?
Quello che mi è servito molto è stata l’esperienza maturata con i videoclip. In Italia ancora oggi è rimasta questo snobismo da parte del cinema nei confronti da chi viene dalla pubblicità. Mentre all’estero non è così, per esempio il regista della recente serie “Chernobyl” è un regista pubblicitario e comunque ha uno stile cinematografico pazzesco. Questo perché ovviamente chi lavora in pubblicità o con i video musicali affina una parte estetica importante e soprattutto impara a governare il set in maniera naturale. Perciò quando capita poi di fare un film si è molto più sicuri riguardo alle questioni pratiche e ci si può concentrare maggiormente su quella artistica e cinematografica. Invece magari i registi di cinema riescono a fare un film in due o tre anni, facendo una fatica bestiale a metterlo in piedi e spesso hanno dei problemi a gestire l’efficienza del set come dovrebbe. Per questo all’estero c’è maggiore aperture ed il fatto che uno venga dalla pubblicità concede una garanzia in più, mentre qua fino a un po’ di tempo fa era ancora un limite. Ora anche in Italia sta un po’ cambiano la direzione, per fortuna.

Lei ha parlato anche di cortometraggio. Qual è il suo rapporto con questa tipologia di prodotto? Ha ancora occasione di girare cortometraggi o li ha abbandonati completamente in virtù dei lunghi?

A me il cortometraggio è sempre piaciuto come tipologia di racconto. Adesso però credo non abbia più senso realizzarli perché purtroppo non hanno un mercato interessante ed ampio, quindi il corto viene più considerato come una sorta di investimento per testare le capacità di nuovi talenti che non una forma di racconto da poter distribuire. Anche perché le finestre in tal senso sono veramente poche. A volte però mi capita di partecipare a dei festival in cui ho la possibilità di vedere diversi cortometraggi e lo trovo molto bello, perché si ha la possibilità di ammirare stili diversi e differenti sensibilità nella stessa sera e la considero una modalità di fruizione veramente interessante. Io li vedo molto bene come palestra e come esperimento per individuare chi ha la sensibilità giusta per diventare regista. Mi piacerebbe che ora, anche grazie alle piattaforme streaming, si trovasse un modo per farli circolare maggiormente. Ci sono dei bellissimi cortometraggi che non riescono ad arrivare al grande pubblico perché questo non sa dove trovarli.

Ora lei si sta cimentando anche con un altro tipo di narrazione audiovisiva, ovvero quello della serialità televisiva. Ci può dare alcune anticipazioni riguardo a questo suo nuovo progetto?

Beh, intanto siamo nel periodo in cui, grazie anche alle già citate piattaforme di streaming ed all’innalzamento del livello delle produzioni, la serialità televisiva sta sostituendo il “cinema di qualità”. Questo perché ormai è diventato difficile proporre al cinema un certo tipo di sperimentazione e di progetti, mentre in televisione si riescono ancora a fare. Ad esempio le opere in costume o particolarmente drammatiche, oppure anche racconti epici. Cito ancora il caso di “Chernobyl “che al cinema non si sarebbe potuta realizzare, mentre invece è stato possibile in televisione ed è stato un grande successo.
La serie che sto realizzando mi è stata proposta quasi due anni fa da Taodue e l’ho trovata subito geniale, perché racconta l’esplosione del “” in quel periodo storico degli anni ’70 in cui la moda è diventata un sistema in Italia. È il periodo in cui si è passati dall’alta moda al pret a porter e quello in cui grazie a personaggi come Armani, Missoni o Versace si è creato un sistema che poi negli anni ’80 è esploso. Poi ci sono stati anche Prada, Dolce & Gabbana… insomma, il periodo in cui è nata la moda italiana. Mi è piaciuta subito. Abbiamo lavorato un po’ alla sceneggiatura, ho avuto modo di incontrare gli stilisti e i personaggi che hanno vissuto veramente quell’epoca: i fotografi, i giornalisti e con il loro contributo abbiamo creato un documento veramente interessante.
Abbiamo avuto anche un cast eccezionale che ha compreso Margherita Buy, Giuseppe Ciderna e poi diversi giovani attori bravissimi come Greta Ferro, Fiammetta Cicogna e Maurizio Lastrico. Sono veramente molto soddisfatto. Abbiamo girato gran parte della serie a Milano, poi ci siamo spostati in Marocco, a Roma e a New York.

Considerando le differenze strutturali tra narrazione cinematografica e televisiva, com’è stato il suo approccio a questa nuova modalità di racconto?

In realtà abbiamo cercato di essere il più cinematografici possibile. Volevamo che i personaggi avessero una loro profondità, un loro modo di inseguire il racconto. Poi è chiaro che un racconto più lungo ci ha permesso di approfondire di più certi aspetti, quindi di affezionarci di più ai personaggi. In realtà è come se fosse una narrazione che comprende quattro film, perché sono otto puntate da cinquanta minuti l’una.
Poi abbiamo lavorato molto nel cercare di creare il mito dei personaggi degli stilisti, anche facendoli interpretare da attori di richiamo: Armani è interpretato da Raul Bova, Krizia da Stefania Rocca. Ci sono state queste Guest Star che hanno veramente affascinato tutti e influenzato tutto il procedimento.
Noi poi abbiamo cercato di mettere in relazione le due rivoluzioni, perché mentre c’erano questi personaggi che rivoluzionavano la moda italiana, fuori c’erano le Brigate Rosse ed un clima particolarmente acceso.

A livello produttivo ha trovato differenze nel lavorare ad una serie televisiva, piuttosto che ad un film per il cinema?

Ho cercato, anche grazie a The Family che ha supportato la produzione dal punto di vista esecutivo, di mantenere un rapporto con i miei collaboratori più fidati, con cui ho lavorato molto in passato, come Luca Merlini alla scenografia o Alessandro Bolzoni alla fotografia con cui collaboro sin dai primi videoclip, quindi ero in una sorta di “comfort zone” in cui mi potevo fidare di chi mi stava attorno.
L’unica grossa differenza sono stati i tempi: quando devi girare otto pagine di sceneggiatura al giorno, certe volte devi fare due ciack e poi correre all’altra scena e questo è stato un po’ pesante. Però devo dire che anche grazie al cast eccezionale siamo riusciti ad ottenere un buon risultato.

Noi siamo una rivista che oltre che di Cinema ed Arte si occupa anche di turismo, perciò volevamo chiederle se nella sua carriere, realizzando i suoi lavori, abbia incontrato un luogo che l’ha affascinata particolarmente o al quale è rimasto legato in qualche modo.

Beh, devo dire di avere avuto la fortuna di viaggiare tanto e quindi sono tanti i luoghi che mi hanno affascinato. Ho girato spesso in Sud Africa, in Argentina, in Patagonia o anche nel deserto dell’Arabia Saudita, negli Emirati… Sono veramente tanti i luoghi che mi hanno colpito, poi ovviamente in molti casi anche l’Italia. Ho girato delle volte in Toscana in dei posti fantastici, oppure sulle dolomiti, ma mi è veramente difficile identificarne uno in particolare a cui sono rimasto legato.